“The Village” un film di M. Night Shyamalan Recensione

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Convington, Pennsylvania. Fine ‘800.
O almeno così dice la lapide che apre il film, il funerale di un bambino davanti la cui cassettina da morto fa ala l’intero villaggio coi completi di fustagno e le gonne fino alle caviglie.

Si tratta di una comunità di agricoltori-allevatori, che consuma i pasti in comune e ha affidato la Legge al “comitato degli anziani”, capitanata da Edward (William Hurt).
Non che ci sia granché da legiferare, in realtà. Il villaggio è pacifico e operoso, c’è solo da rispettare un patto kafkiano con le “creature innominabili”, carnivori e violenti che abitano il bosco intorno, coi quali si è stabilito, tacitamente, il mantenimento a distanza: nessuno varca i confini altrui. Convington insomma è una realtà isolata e autarchica.
Tra innamoramenti inattesi, senili e infantili, che coinvolgono tutti, dal marziale Edward alla giovane e cecata Ivy (Bryce Dallas Howard), alla meno giovane ma sempre bellissima Sigourney Weaver (Alice), giù giù fino allo “scemo del villaggio”, Noah, un riuscitissimo Adrien Brody, arriva il momento della resa dei conti: Lucius (Joaquin Phoenix) ha subito una ferita mortale e avrebbe bisogno di penicillina e varie medicine per non morire. Ma nel XIX secolo non sono ancora state inventate. O forse sì…

Negli Stati Uniti The Village, l’ultima prova di M. Night Shyamalan (Il Sesto Senso), è stata accolta con un generale clima di stanchezza ed esasperazione nei confronti di un regista che sembra ormai prigioniero di una personale formula che mischia colpi di scena e stile fin troppo lento e meditato.

In sostanza si accusa il regista di essere sé stesso e di avere una idea coerente e personale di cinema. Accecati dall’aspettativa del grosso colpo di scena, pubblico e critica siedono nervosamente sulla poltrona aspettandosi la grossa rivelazione, annoiandosi fra un climax e l’altro e perdendo di vista tutto quello che questo cineasta, ultimo dei romantici, ha da narrare ai nostri cuori, alle nostre teste. Viene quindi naturale che, delusi dalla possibile inconsistenza di certe trovate, si risalga la corrente della sceneggiatura per ricercare a ritroso tutti i possibili buchi e spiattellarli di fronte all’autore indiano.

The Village è un intenso e sofferto atto di accusa nei confronti della paura e di quello che la paura può fare all’uomo, bloccandolo e incarcerandolo entro muri e confini invalicabili. Paura intensa in ogni sua sfumatura, dal razzismo all’esitazione che ci piglia nel confessare i nostri sentimenti, dal timore per l’incolumità al terrore del futuro.
Questo sentimento può essere vinto solo da un qualcosa di più forte che per il regista trentaquattrenne può essere solo l’amore.

E’ scritto che un cieco li guiderà e sembra essere questo il destino del villaggio di Covington Woods: la stupenda Ivy Walker, una Bryce Dallas Howard (Lady in the Water, Terminator Salvation) in stato di grazia, sarà la sola a superare i confini proibiti, cieca eppur unica in grado di vedere i colori in un mondo astutamente in bianco/nero/marrone grazie agli sforzi congiunti del fotografo, scenografo e costumista. Seguendo il destino del suo cognome camminerà lungo sentieri impervi per apprendere il mistero che si cela dietro queste strane creature dei boschi.

Giunto alla sua sesta prova, Shyamalan abbandona i toni intimistici de Il Sesto Senso, accantona i paesaggi della sua amata Philadelphia per ricostruire un villaggio di fine ottocento in mezzo ad alberi e colline, confrontandosi con quella larga fetta di narrativa e cinematografia che potremo definire del weird-bucolico e risolvendo la narrazione nella consueta successione di scene semi immobili dalla straordinaria compostezza d’inquadratura.

Hemingway, in una nota intervista in appendice ai suoi 49 racconti citava come sue principali influenze non degli altri scrittori bensì una serie di pittori, così si potrebbe fare anche per questo cineasta che, dovendosi confrontare con la campagna statunitense, con personaggi che attendono seduti sotto verande, con luce e ombre decise, sceglie di citare tutta una vasta gamma di artisti del calibro di Andrew Wyeth, Thomas Eakins o Winslow Homer ricorrendo all’usuale vezzo di “incorniciare” molti fotogrammi sfruttando a meraviglia il set e le sue limitazioni fisiche.

Per il fan che hanno in casa i poster di Venerdì 13 sarà difficile uscire soddisfatti da una visione di The Village: l’orrore come comunemente lo intendiamo è assente dalla tavolozza cromatica di Shyamalan mentre notevole è il costante senso di pressione psicologica esercitato dal bosco e dai suoi abitanti: suoni, campi lunghi, qualche carcassa scuoiata e fugaci apparizioni costruiscono un terrore panico (inteso come richiamo al dio Pan) che ha suoi eguali in poche altre pellicole, segnatamente Picnic ad Hanging Rock o alcuni momenti di The Blair Witch Project.

Straordinari i dialoghi (perlomeno in versione originale) fra le due coppie di innamorati e comunque ottimamente filmati i vari colpi di scena disseminati lungo tutto il film a partire dal cinquantesimo minuto più o meno.

The Village è anche il film di questo regista con il cast più eterogeneo e ricco e Shyamalan dimostra di trovarsi a suo totale agio nel dirigere sia i bambini (come sempre d’altronde) sia le grandi star che, avvertendo la mano ferma del cineasta, rispondono con prove intense e brillanti: imperdibili le occhiate fra Sigourney Weaver (Alien, Aliens Scontro Finale, Copycat – Omicidi in serie) e un ritrovato William Hurt (A History of Violence, Dark City) mentre Joaquin Phoenix (Signs) calibra il suo ruolo intorno alle pieghe della bocca e agli occhi acquosi e sognanti. Leggermente fuori ruolo Adrien Brody (Splice, Predators, The Experiment, Wrecked) nei panni del pazzo del villaggio ma si tratta di un ruolo che storicamente offre il fianco a sovrarecitazioni e gigionerie.

La colonna sonora gioca un ruolo più importante della media andando a riempire i vari momenti privi di dialogo e, pur non essendo il migliore lavoro di James Newton Howard è ricca di momenti affascinanti.

Rispettando la consuetudine, M. Night Shyamalan si ritaglia un importante cameo nei passaggi finali della vicenda.

Come sempre, lo stile del regista brilla di luce particolarmente intensa nei pochi momenti rivelatori: la lentezza tipica di questo cineasta prepara furbescamente il terreno per quei pochi disturbanti secondi durante i quali l’altro, il mostro, l’estraneo appare ai margini del nostro campo visivo, sfocato e confuso per poi concretizzarsi quale reale e pericolosa presenza. Chiunque ricordi ancora adesso Signs in virtù di quei pochi istanti di apparizione degli alieni troverà sicuramente pane per i suoi denti durante il viaggio all’interno del bosco.

Se le accuse di noiosità e lentezza possono essere facilmente liquidate non possiamo dire altrettanto per certe incongruenze e falle logiche presenti nella sceneggiatura: ci sono e sono sotto gli occhi di tutti e non riusciamo a trovare giustificazioni possibili se non una certa trascuratezza in fase di revisione dello script. Potrebbero disturbare (e disturberanno) molti spettatori, non ci resta altro da dire che ci si può passare sopra con un minimo sforzo e gustarsi egualmente l’intera vicenda che, lo ripetiamo, non si regge assolutamente sui supposti twist della trama bensì su riflessioni ben più importanti riguardanti la nostra natura e le nostre debolezze.

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