Blonde Recensione

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Qui il nostro articolo per conoscere Blonde
Trama di Blonde

Blonde, film diretto da Andrew Dominik, racconta la vita dell’iconica bionda di Hollywood: Marilyn Monroe (Ana de Armas). Confondendo i confini tra realtà e finzione, il film esplora quella tensione tra la vita pubblica e quella privata vissuta dalla diva in un equilibrio talvolta troppo precario.

Dopo una difficile infanzia, Norma Jeane Mortenson, questo il suo vero nome, sfonda a Hollywood come attrice tra gli anni ’50 e gli anni ’60, divenendo presto celebre in tutto il mondo con lo pseudonimo di Marilyn Monroe.

Le sue sfavillanti apparizioni sullo schermo, in cui appare sempre luminosa e sorridente, sono in contrasto con la sua vita lontano dai riflettori, fatta di problemi di cuore, abuso di potere e tossicodipendenza, un insieme di situazioni che non fanno altro che devastarla sempre più a fondo.

Questo è il nostro punteggio 3.5/5

Commento personale al film

Un film biografico onirico di fantasia su Marilyn Monroe, Blonde presenta una interpretazione sbalorditiva e volatile di Ana de Armas, la cui audace vulnerabilità è eguagliata dall’approccio formale altrettanto audace del regista Andrew Dominik, che mantiene Marilyn in costante conversazione con le sue fotografie iconiche, con la fotocamera e con il grande pubblico.

Ma ecco cosa ci mostra Blonde

Il primo film di Andrew Dominik, Chopper (2000), sul criminale australiano Mark Brandon Read, inizia con un esplicito disclaimer: “Questo film è una drammatizzazione in cui sono state prese delle libertà narrative. Non è una biografia”. La stessa etichetta potrebbe applicarsi a Blonde – basato sull’omonimo romanzo del 2000 di Joyce Carol Oates. 

Vedere Blonde attraverso una lente fattuale significa perdere il punto e fraintendere il suo linguaggio, anche se esiste accanto alla storia dei fatti, mettendo insieme una narrativa allucinatoria dalla nascita alla morte utilizzando, come base, fotografie iconiche della grande Marilyn Monroe, morto tragicamente a 36 anni.

È un film sorprendente e difficile, con 2 ore e 45 minuti di materiale rigoroso ed emotivamente punitivo interpretato da una splendida Ana de Armas. È il tipo di film biografico crudo e inaspettatamente non tradizionale che probabilmente guadagnerà una “F” CinemaScore da spettatori occasionali, non diversamente dal precedente film narrativo di Dominik, il dramma gangster nero come la pece KIlling Them Softly (2012). 

Blonde si svolge meno come un racconto della vera Marilyn, alias Norma Jeane Baker, o anche come una storia sull’avatar fittizio creato da Oates, e più come un sogno sul mondo in cui visse Norma Jeane e sui mondi privati ​​in cui abitava, tutto catturato dall’interno.

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I toni gentili e affascinanti dei compositori Nick Cave e Warren Ellis mettono in risalto Marilyn al rallentatore prima che la storia salti indietro nel tempo, aprendosi durante l’infanzia di Norma Jeane nel 1933. Qui è interpretata da una giovane attrice straordinariamente capace, Lily Fisher, i cui genera simpatia straziante. Il giorno del suo settimo compleanno, la madre single disturbata di Norma Jeane, Gladys (Julianne Nicholson), la mette alla ricerca di una vita intera girando una storia sul suo presunto famoso e potente padre assente, un attore senza nome a Tinseltown. Questo pianta i semi agrodolci della celebrità nel profondo di Norma Jeane.

Queste scene introduttive si svolgono tramite panoramiche, zoom e spostamenti improvvisi nello spazio. Un incendio infuria e consuma tutta Los Angeles mentre la madre di Norma Jeane la porta dalla loro casa in fiamme direttamente nel retro dello studio dove sembrano vivere. 

È un prologo decisamente onirico, e per tutto il tempo presenta suoni sbalorditivi e disincarnati, come mosche ronzanti e telefoni che squillano, mescolati un po’ troppo forte, come se fossero separati dall’immagine, come se fossero rumori del mondo reale, invadendo i tuoi pensieri addormentati e cercando disperatamente di svegliarti da questo incubo che sicuramente finirà con la morte e chiama senza risposta.

I duri momenti di abbandono e abuso fanno presagire una storia stranamente accattivante in cui la stessa Norma Jeane lotta con idee di genitorialità e aborto. Ma il film racconta prima la sua difficile ascesa: la sua trasformazione in Marilyn, la bionda sbiancata che subisce ancora più traumi per mano dei dirigenti dello studio a porte chiuse, in un modo così transazionale che a malapena si registra con lei fino a dopo il fatto.

Blonde è un simbolo per Hollywood, mentre Marilyn, Blonde, è ugualmente un simbolo per il suo ventre purulento e per la bellezza e l’innocenza che consuma.

Ma non è stata derubata della sua umanità. Ambientando queste scene, dalla nascita di Marilyn Monroe, alla sua canzone della vita reale ” Every Baby Needs a Da-Da-Daddy” (dal film del 1948 Ladies of the Chorus) trasforma il famoso brano in una stele di Rosetta. 

Marilyn è desiderata ma infantilizzata dagli uomini che la circondano. D’altra parte, è anche vulnerabile e simile a un bambino durante la sua ingenua ricerca del padre fantasma, che le scrive dall’ombra e la cui voce fuori campo a volte consuma il paesaggio sonoro, come uno spettro che la definisce fuori dallo schermo. 

E, in una terza mano inaspettata, il film sembra inventare, tutta stoffa, una propensione al gioco di ruolo in cui Norma Jeane si riferisce ai vari uomini della sua vita nel corso degli anni come “papà”, anche in conversazioni casuali, come per collocare la sua sessualità in primo piano e al centro, proprio accanto alla sua infantilizzazione da parte del pubblico, e proprio accanto ai profondi crepacci emotivi che non può ignorare.

Spesso è scomodo da guardare, dal momento che questi momenti sessuali privati ​​sono i rari in cui la telecamera la guarda dall’alto, dal punto di vista dei suoi partner. Inizia in una stanza d’albergo buia, quando scambia il suo ragazzo, Joe DiMaggio di Bobby Cannavale, per suo padre che viene a sorprenderla dopo una premiere. 

Da quel momento in poi, è una connessione che non riesce a districare o non desidera, dal momento che la fa andare avanti verso una versione completa di se stessa che ha un genitore amorevole, ma una versione che potrebbe non esistere veramente.

Ma tutto questo a cosa ci porta? Cinematograficamente parlando

In termini cinematografici tradizionali, è minuscola nell’inquadratura quando la telecamera la guarda dall’alto ogni volta che chiama il suo partner “papà”, e quindi è impotente. Ma data la costruzione di queste scene, lei ha le carte in regola quando si tratta di queste fantasie; per una volta, ha il controllo su di loro: ingaggia la telecamera maliziosa in un gioco di potere seducente. 

È, a volte, nuda, l’oggetto dello sguardo della telecamera; in molte altre scene afferma di odiare essere vista e odia essere oggettivata dal pubblico come “un pezzo di carne”. La telecamera di Dominik le fa proprio questo in questi momenti, eppure questi suoi fotogrammi, nuda e indifesa, non possono essere separati dalle dimensioni più ampie e vivide che de Armas mette in mostra – una performance multiforme piena di angoscia e malizia – o dal contesto stesso delle immagini stesse.

“Papà” può essere tutte queste altre cose per lei, da un richiamo all’infantile, fino a una volgarità a buon mercato e stuzzicante, ma qui è senza dubbio anche psicosessuale; soprattutto, è semplice. 

È una rivendicazione del potere. È Norma Jeane che viene sfruttata e ridotta, ma per una volta, interamente alle sue condizioni. Sì, quei termini sono in realtà del regista, in realtà di de Armas, e in realtà di Blonde, ma quando si tratta di rappresentazioni romanzate di Norma Jean, è il più potente che il suo fantasma sia mai stato – come se de Armas, nella sua forma più accattivante, fosse lasciando che la fotocamera creda di avere il controllo.

In Blonde, il sesso è anche il più avvincente che sia mai stato sullo schermo di Hollywood da un po’ di tempo. La sua rappresentazione dello stupro, nel frattempo, è brutta: Norma Jeane è costretta a fare sesso orale e penetrante almeno una volta nel film, anche se entrambe le volte la telecamera rimane paralizzata sulla sua espressione, come se fosse costretta a liberarsi del resto corpo, ed esistono al di fuori di esso, ma quando trova due uomini (i figli semi-romanzati di Edward G. Robinson e Charlie Chaplin, interpretati da Evan Williams e Xavier Samuel) che la amano incondizionatamente e la aiutano ad amare il proprio corpo in vari modi lo sguardo vizioso e mercificante del pubblico non lo permette, il loro trio estatico non può essere contenuto dal tessuto dello schermo. 

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Allunga e contorce l’inquadratura, catturando prima tutto il corpo di Marilyn, mentre si sente liberata per la prima volta, prima che le forme fisiche di tutti e tre i personaggi trascendano la luce e lo spazio, contorcendosi in matrici abbaglianti e caleidoscopiche fino a raggiungere l’orgasmo. Solo allora il film torna in primo piano sulla sua espressione; solo allora collega il suo corpo ai suoi occhi e alla sua anima.

Il bianco e nero in contrasto con il colore

Alcune scene sono in bianco e nero. Alcuni sono a colori. Le proporzioni sembrano spostarsi in modo casuale tra widescreen (2:35:1), Academy ratio (1:33:1) e tutto il resto (a volte va anche oltre, espandendosi verticalmente). È una sorta di mistero – inizialmente, sembra che le scene pubbliche di Marilyn siano commemorate in bianco e nero, con la Norma Jeane ricordata in tonalità vivide – finché non ti rendi conto che non esiste un vero codice per sbloccare la scelta della forma o del colore del film, ad eccezione dell’iconico fotografie di vita reale costituiscono la base di una determinata scena. 

Dominik e il direttore della fotografia Chayse Irvin visitano molte delle location e usano persino la pellicola specifica utilizzata per creare le immagini più famose di Marilyn, che mettono in scena, ma trasformano in opportunità per conoscere la loro versione di Norma Jeane. 

Spesso presentano inquadrature inverse e diverse angolazioni di momenti iconici e li infondono con storie alte mentre sbirciano dietro il sipario. I tratti generali della sua vita reale rimangono: un’infanzia travagliata, una tumultuosa carriera in studio e una dualità inquieta tra Marilyn, la persona sullo schermo, e Norma Jeane, la vera donna. Ma a questa dicotomia viene impedito di essere appiattita in una serie di cifre da una decisione spettacolare: il film è tanto una storia onirica e una vetrina per la performance, quanto una conversazione sulla performance stessa.

Ma parliamo di De Armas

De Armas è instabile, scavando in profondità nel vuoto che esiste nello spazio sottile tra Marilyn e Norma Jeane. Cattura la forma di Marilyn; all’inizio è a suo agio con la sua pelle, i suoi vestiti e i suoi capelli – anche il tono di voce morbido ma misurato di Marilyn, anche se maschera solo leggermente il suo accento cubano – ma mentre Norma Jeane cerca nuovi modi per esprimere la sua storia e i suoi talenti, forse anche la sua vera identità, i capelli biondi di de Armas sembrano posarsi a disagio sulla sua testa. Le sue sopracciglia diventano più visibilmente schiarite. 

Si richiama l’attenzione sull’artificio di Marilyn Monroe. Il suo accento cubano sembra mostrare di più, come se il personaggio fosse ancora più un outsider, che lotta per trovare il suo posto. Per tutto il tempo, Norma Jeane cita i romanzi di Fëdor Dostoevskij e le rappresentazioni teatrali di Anton Cechov, sperando di essere presa sul serio sia durante le audizioni e nelle conversazioni con Miller (Adrien Brody), suo marito drammaturgo. 

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Dostoevskij e Cechov non sono solo semplici riferimenti, ma una stella polare con cui spera di guidare le sue esibizioni, plasmare la sua comprensione del personaggio e approfondire la sua lettura del testo (e, come in omaggio alle tradizioni di Cechov, de Armas si impegna pienamente a vivendo ogni momento istintivamente, con ogni fibra del suo essere fisico, in un atto di rievocare questi ricordi irreali). 

Quando vediamo l’icona interpretare i suoi ruoli memorabili, in film come Gli uomini preferiscono le bionde, non vediamo solo Marilyn, la bellezza. Vediamo anche l’artista Norma Jeane e il suo intelletto. Tragicamente, vediamo anche il modo in cui il suo approccio alla performance informa anche questa dualità personale, come se i suoi talenti contribuissero a farla dividere in due. Dostoevskij e Cechov non sono solo semplici riferimenti, ma stelle polare con cui spera di guidare le sue esibizioni, plasmare la sua comprensione del personaggio e approfondire la sua lettura del testo (e, come in omaggio alle tradizioni di Cechov, de Armas si impegna pienamente a vivendo ogni momento istintivamente, con ogni fibra del suo essere fisico, in un atto di rievocare questi ricordi irreali). 

Blonde fluttua da una scena all’altra sia malinconicamente che visceralmente, portando alla luce una visione surreale del corpo e dello spirito di Norma Jeane da sotto le macerie di Marilyn. 

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Mette la sua forma fisica davanti e al centro, spesso scomodamente vicina, come per costringerci ad andare oltre il nostro stesso sguardo e diventare un tutt’uno con la sua carne. 

È l’opera formalmente più audace di Dominik dai tempi dell’assassinio di Jesse James da parte del codardo Robert Ford (2007), solo che scambia le attente pennellate del suo western moderno con una distorsione frastagliata in un film sull’essere guardato ma mai visto, adorato ma mai amato, famoso ma mai conosciuto – e sulla ricerca disperata dei pezzi mancanti di te stesso. È triste, ma celebrativo. È furioso quanto toccante, invasivo quanto reverenziale e crudele quanto gentile.

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